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Pensioni: le menzogne dei politici | Milena Gabanelli

«Con la crescita zero il Paese invecchia. Tra un po’ avremo un pensionato a carico di ogni disoccupato». La vignetta di Altan è vecchia, ma la provocazione sta diventando realtà. Il principio su cui si regge il sistema previdenziale lega a doppio filo il numero di lavoratori a quello dei pensionati: con i contributi del mio lavoro oggi pago chi sta prendendo la pensione, domani ci dovrà essere qualcuno che lo farà per me. Se questo equilibrio si spezza, le casse dell’Inps e degli altri enti previdenziali saltano. Su 36 milioni di italiani in età da lavoro oggi i dipendenti (sia a tempo indeterminato sia a tempo determinato) e gli autonomi sono 23 milioni. Da questo numero è escluso chi è in cassa integrazione o inattivo da oltre 3 mesi. Invece a incassare la pensione di anzianità, vecchiaia, sociale, invalidità e infortuni sul lavoro, sono 16 milioni. Con questi numeri fino a quando sono garantite le pensioni ai livelli di oggi? Vediamo che cosa ci aspetta e cosa innesca il continuo cambiamento delle regole per abbassare l’età pensionistica. Il decimo rapporto «Il Bilancio del Sistema Previdenziale italiano» redatto dal Centro studi e ricerche Itinerari Previdenziali di Alberto Brambilla e presentato stamattina, 18 gennaio, alla Camera dei deputati, parla chiaro. Dataroom l’ha potuto leggere in anteprima.

La situazione attuale

Secondo i calcoli ormai consolidati, per consentire al sistema pensionistico di reggere devono esserci tre lavoratori ogni due pensionati: è il «rapporto attivi/pensionati» espresso tecnicamente dal tasso di 1,5. Oggi siamo a 1,42. Il conto è fatto sugli ultimi dati disponibili comparabili, quelli di fine 2021: i lavoratori sono 22 milioni e 884 mila contro 16 milioni e 98.748 pensionati. La differenza tra il tasso di 1,5 e quello di 1,42 sembra minima, ma non lo è: vuol dire che nel 2021 per avere una condizione in perfetto equilibrio ci dovrebbero essere 1 milione e 264.122 lavoratori in più, oppure 842.748 pensionati in meno. Invece ci sono entrate contributive per 208 miliardi e 264 milioni, mentre la spesa pensionistica è di 238 miliardi e 271 milioni. Un buco di 30 miliardi. Sul 2022 invece c’è il numero di occupati (23 milioni), ma manca ancora quello dei pensionati.

Come siamo arrivati fin qui

Il saldo negativo tra entrate contributive e spesa pensionistica non è una novità, tant’è che negli anni i disavanzi patrimoniali hanno dovuto essere coperti con interventi legislativi. Nell’ultimo decennio si possono distinguere due momenti. Il primo è quello che va dal 2012 al 2018, e che vede una diminuzione costante del numero dei pensionati: dai 16 milioni e 668.584 del 2011 ai 16 milioni 4.503 del 2018. È l’effetto della riforma Fornero scattata a gennaio 2012 (qui il provvedimento, art. 24) che innalza l’età per la pensione di vecchiaia da 65 a 67 anni, e pone come requisiti per la pensione anticipata 42 anni e 10 mesi di contributi per gli uomini e 41 anni e 10 mesi per le donne. Fino ad allora bastavano 35/36 anni, a patto di avere compiuto i 60/61 anni («Quota 96»). Il secondo momento è quello che va dal primo gennaio 2019 al 31 dicembre 2021 e vede una risalita del numero di pensionamenti: dai 16 milioni 4.503 ai 16 milioni e 98.748. Il motivo principale è l’entrata in vigore di «Quota 100», approvata dal governo Conte I su spinta del leader della Lega Matteo Salvini e che prevede la possibilità di andare in pensione a 62 anni e con almeno 38 anni di contributi. Tra il 2019 e il 2021 hanno utilizzato «Quota 100» in 379.860 con una spesa di 11,84 miliardi. Ma con lo smaltimento delle domande arretrate la stima è che si arriverà a 450 mila, con un anticipo medio di pensionamento rispetto alla Fornero di 2 anni e mezzo.

Occupazione in ripresa e morti da Covid

Con il tasso all’1,42 abbiamo visto che il numero di pensionamenti resta troppo elevato rispetto al numero di lavoratori. E questo si verifica nonostante nel 2021 l’occupazione sia in netta ripresa, e il numero di pensionati diminuisca in modo significativo anche per le morti da Covid. Da un lato con 22 milioni e 884 mila lavoratori si torna ai livelli pre-pandemia, con il numero di contratti a tempo determinato costante negli anni (intorno al 17%). Dall’altro lato, il numero di prestazioni previdenziali con durata quarantennale, erogate cioè a persone andate in pensione nel lontano 1980 o ancor prima, è passato da 423.009 a 353.779: le 69.230 prestazioni eliminate sono da imputare prevalentemente al Covid che ha colpito soprattutto gli over 80.

Quota 102 e Quota 103

Allo scadere di «Quota 100», il governo Draghi introduce «Quota 102» (qui il provvedimento, art. 1 comma 87): l’età per andare in pensione con 38 anni di contributi passa da 62 a 64 anni. La stima è che in totale nel 2022 le richieste accolte sono cinquemila con un anticipo medio di 27 mesi e un costo a regime di circa 42 milioni di euro. Con la legge di Bilancio 2023 i criteri cambiano di nuovo, e spunta «Quota 103»: il governo Meloni riporta l’età per la pensione anticipata a 62 anni, ma stavolta con 41 di contributi (qui il provvedimento, art. 1 comma 283). La nostra aspettativa di vita è tra le più elevate a livello mondiale e, tirate le somme, l’età effettiva di pensionamento in Italia è 63 anni, mentre la media europea è di 65 anni. Oggi la spinta politica italiana è quella di abbassare l’età pensionabile per favorire le assunzioni dei giovani. Vediamo se si trova riscontro nei fatti.

Lavoro dipendente: più pensionati, meno assunzioni

Calcoliamo quanti under 29, tra il 2015 e il 2021, sono entrati nel mercato del lavoro per ogni lavoratore anziano uscito. Il conto prende in considerazione il numero di nuovi pensionati Inps tra i lavoratori dipendenti e le assunzioni di giovani fino a 29 anni nel settore privato. Risultato: il rapporto è uguale o superiore a 1 solo per un anno, il 2017, quando per ogni nuovo pensionato vengono assunti 1,7 giovani. I dati più bassi sono registrati nel 2015 (0,30) e nel 2019 (0,37). Nel 2021 il rapporto sale a 0,88: 212.045 under 29 assunti contro 239.602 nuovi pensionamenti.

L’ostacolo maggiore per le nuove assunzioni è la mancanza dei profili professionali di cui necessitano le imprese. Non viene soddisfatta quasi la metà della domanda: ad esempio ad inizio gennaio 2023 su un totale di 152.540 figure richieste il 48% non è stato reperito. In particolare considerando le competenze più difficili da reperire, ovvero operai specializzati, tecnici in campo informatico e ingegneristico, farmacisti e biologi, su oltre 44 mila richieste il 64,6% non è stato trovato (qui il documento). Infine un dato molto preoccupante: tra i ragazzi fra 16 e i 24 anni che non studiano, lavora solo il 17,5% contro il 32,7% della media Ue. Di fronte all’inesorabilità dei dati emerge tutta l’irresponsabilità politica: incapace di creare le condizioni per aumentare i posti di lavoro, preferisce accontentare chi vuole smettere di lavorare, spacciandola come soluzione per liberare spazio a vantaggio dei giovani. E le conseguenze di un minore incasso si spalmeranno su tutti i cittadini.

18 gennaio 2023 | 10:04

© RIPRODUZIONE RISERVATA

Fonte: news.google.com

Doroteo Cremonesi

Affascinato dal progresso, dalla tecnologia e dall'energia, amante delle automobili

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