A BORDO DELLA OCEAN VIKING – Il più piccolo naufrago che arriva sui gommoni di salvataggio è grande come un gattino. È tutto un giubbotto e panni e stracci messi insieme per tenerlo al caldo. Ha solo tre settimane. Quello che arriva dopo di lui a stento ha tre mesi. Ma questo si scopre poi, quando con le madri arrivano sul ponte della Ocean Viking. Prima c’è solo la notte. E la paura quasi solida che senti sul mare.
Il Mediterraneo è nient’altro che una cappa solida che ti si riversa addosso e diventa più pesante via via che passano i minuti fra la segnalazione e l’avvistamento. Sono le tre. Una lucina che appare e scompare guida i rhib, le lance veloci, poi il mare se la mangia, dopo minuti interminabili riappare di nuovo. A guidarti alla fine sono le urla. E l’odore di umanità disperata, pressata, terrorizzata.
Quando il faro dei rhib illumina il barcone ci sono solo occhi spalancati, gambe che sporgono dai tubolari e incastrato fra decine e decine di adulti, un bambino. Non stanno su un gommone, ma su un canotto. Precario, grigio e vecchio, con agganciato un motore da quaranta cavalli. Basta guardarlo per capire che non sarebbe mai arrivato da nessuna parte, che di quelle 113 persone sarebbe forse rimasto solo il ricordo di chi le aspetta, di chi le ha perse. Lo sanno loro, lo sai tu, le urla sembrano quasi avere un’eco. Il pianto dei più piccoli, ancora di più.

Sono i primi a ricevere i giubbottini di salvataggio, i primi ad arrivare sulle lance di soccorso. Sette hanno meno di cinque anni, poi ne arrivano altri che non saranno troppo più grandi. In Italia c’è chi considera persino loro degli invasori, ma tutti insieme non fanno il peso di un uomo adulto. Al massimo potrebbero invadere un parco giochi, sempre che ne abbiano mai visto uno. E la cosa più probabile è che la risposta sia no.
Occhi giganti, sguardo da uomo, fra loro c’è un bimbo che non avrà più di cinque, sei anni. Quando i più piccoli iniziano a piangere, si prende cura di loro, come un fratello più grande. Di tutti.
Parlano in lingue diverse, molti in chissà quali dialetti africani, ma non ci vuole molto per capire che tutti chiamano la mamma. La più disperata è una piccolina con la pelle scura scura, il maglione rosa, zuppa d’acqua e di paura. In quella disperazione sembra annegare. Ha rischiato di farlo davvero in quel Mediterraneo diventato cimitero. Chissà se lo ha realizzato. Chissà se lo racconterà mai, quali saranno i ricordi di questa notte.
Salgono gli adulti, i piccoli si affidano a loro. Un adulto, un bambino, un adulto, un bambino. Li imbarchiamo così… “Stacci attento, controlla che respiri”, si finisce a urlare in una lingua ibrida. Poi tocca fare posto, cercare di portare su più gente possibile, evitare che su quel canotto si spintonino e si agitino. Arrivano le donne, tremano mentre con passo malfermo salgono sul rhib e si siedono sui tubolari. Ad alcune, stremate, tocca stringere le mani attorno alle corde per evitare che si lascino cadere giù, ci sono quelle che catatoniche continuano a guardare lo straccio di gomma su cui hanno attraversato il mare, altre ancora si limitano a guardarsi attorno. Arrivano anche gli uomini, molti sono ragazzini. In trentaquattro viaggiano senza avere un adulto accanto.
La lancia di salvataggio si riempie, si torna alla Ocean Viking, attorno gli altri due rhib fanno lo stesso, poi si torna indietro a prendere su gli ultimi. “Vedete quella grande nave laggiù. Vi portiamo lì. Ci sarà cibo, acqua, se volete potrete farvi visitare da un dottore. Tranquilli, nessuno vi riporterà in Libia”.
Le lacrime che rigano il volto di una donna seguono i confini di due lunghe cicatrici parallele che ha sul volto, si sente finalmente respirare un’umanità disperata rimasta aggrappata alla vita persino con i lineamenti. Ci sono facce che sembrano materialmente sciogliersi in sorrisi.
La scaletta rossa della Ocean Viking illuminata dai fari è la certezza di aver dribblato la morte. Ci sono mani che accompagnano durante la salita, braccia che tirano su, un piccolo zerbino blu con su scritto “welcome on board” che accoglie chi arriva. E cibo, acqua, dottori, vestiti asciutti, un posto per dormire. Mentre l’alba si stiracchia sull’orizzonte, anche gli equipaggi dei rhib tornano a bordo. Ma c’è un’altra allerta, forse anche una terza. Nessuno va a dormire.
Fonte: news.google.com