La prima impressione, diciamolo, non era proprio favorevole. Come manufatto linguistico “transizione ecologica” combina nove sillabe, le aggrega allo stato fluido-gassoso e finisce per richiamare astrazioni buro-sovietiche o gerghi socioqualcosa tra l’ambientalismo e il sindacalese. A tutto ciò poi si dedicherà un “superministero”, entità che si avvale del potenziamento, sempre lessicale, della turbopolitica e allora è difficile allontanare il sospetto maligno che ne possa uscire un magniloquente pateracchio. Speriamo di sbagliarci, naturalmente: per il Pianeta, per l’Italia dentro il Pianeta e, dentro l’Italia, anche per (modestamente) noi stessi.

Purtroppo anche la seconda impressione è un po’ così. Che parola è “transizione”, infatti? Era nel titolo di una gloriosa rivista di teoria politica del gruppo del Manifesto. Ma poi è anche nella formula rituale della “fase di transizione”, che svolge per la fisica politica dinamica il ruolo che nella fisica politica statica è della “pausa di riflessione”: cioè, sostanzialmente, il ruolo di una casella che da vuota ha funzione di mito, o di fantasma. E chissà l’archivio Altan, sulla transizione, quante vignette!