
La Torino degli anni 50 – quella che aveva visto partire per l’esilio da appena quattro anni i Savoia, con le loro residenze sabaude ormai vuote – pareva una cartolina in bianco e nero a cui stavano dipingendo nuovi colori. Lo stabilimento di Mirafiori, della Fiat, completamente ricostruito dopo la fine della guerra (la sola industria italiana sopravvissuta a due conflitti mondiali), stava riprendendo energia, era il simbolo della rinascita economica del nostro Paese. Con un ideale passaggio di consegne, Torino aveva anche ritrovato il suo principe, Gianni Agnelli o semplicemente l’Avvocato (non amava essere chiamato senatore), capo della vera dinastia, di un impero in cui faceva capolino la nobiltà, di cui sentiva il dovere della responsabilità.
Il fascino del condottiero
In piazza San Carlo esistevano due locali – il Caval d’ Brons e il Caffé Torino – si respirava un’atmosfera d’altri tempi (qui fu montata la prima macchina per fare il caffè espresso Gaggia) e dove l’Avvocato si divideva in egual misura, accompagnato dal fratello Umberto e, in qualche occasione, anche dall’altro fratello Giorgio, morto in Svizzera, dove era in cura; una delle tante pagine tristi della famiglia. L’Avvocato aveva il fascino del condottiero, i torinesi l’adoravano, si informava, era un attento osservatore, succedeva che regalasse anche delle bambole Lenci (già preziose allora) per far sorridere qualche bambina imbronciata. Dava del «lei» a Pininfarina, il fondatore della carrozzeria più famosa globalmente, che lo riceveva con la tuta blu da operaio nella sua bottega, e gli realizzava fuoriserie esclusive, griffate solo per lui, fossero Ferrari senza frizione o 500 Spiaggine.
I giornali
Stesso riguardo verso Bepi Koelliker che aveva aperto un’agenzia di automobili – oggi si chiama concessionaria – per importare le prime Jaguar e Rolls Royce dall’Inghilterra – che l’Avvocato chiedeva di provare (e come dirgli di no?) – e strane vetture Zaz fuoristrada, dalla Russia. Si sentiva alla pari, lui che interloquiva con i rappresentanti di ogni casa reale, veniva ricevuto da tutti i presidenti delle nazioni europee e americane, omaggiava la loro genialità come segno di rispetto verso due personaggi che, ciascuno a loro modo, stavano inaugurando una stagione felice dell’automobile di casa nostra. Agnelli guidava solo auto con il marchio Fiat, truccate, rivoltate dai meccanici del Lingotto, che conduceva al posto dell’autista, a velocità impossibili, mentre scendeva dalle strette strade della collina torinese. Più di una volta ha evitato per un soffio degli incidenti: allora si fermava, scendeva dall’auto e chiedeva scusa al malcapitato o alla malcapitata che lo aveva incrociato. Adorava la Fiat (mai l’avrebbe venduta) e il Corriere della Sera: se era a Milano passava a ritirarne una copia appena uscita dalle rotative e lo stesso faceva a Torino con La Stampa. Ai saloni dell’auto i giornalisti assiepavano la sua conferenza stampa e la sua presentazione spesso arrivava ad assumere i toni di una lezione. Al suo fianco compariva un giovanissimo Luca di Montezemolo.
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