
GIANLUIGI GUERCIAGetty Images
“Nelle brulicanti baraccopoli di Johannesburg, dove i giornali sono una rarità, la scorsa settimana un camion carico di riviste ha attraversato le strade non asfaltate. Ovunque si fermasse, centinaia di persone si accalcavano, comprando una copia di The African Drum“. Così su TIME, nel 1952, si racconta il fenomeno Drum Magazine, primo lifestyle magazine africano creato negli anni Cinquanta in Sudafrica – in pieno apartheid – e diventato un’importante piattaforma per tutta una nuova generazione di scrittori e fotografi che hanno cambiato il modo in cui i neri venivano rappresentati nella società, raccontando quello che stava avvenendo tra le nuove comunità urbane e con un taglio editoriale sfacciato, infarcito di cronaca investigativa, sesso e sport. Fondato nel marzo 1951 a Città del Capo dal giornalista e conduttore televisivo Bob Crisp, inizialmente il giornale si chiama African Drum, ma agli esordi i contenuti lasciano assai a desiderare. La svolta – e il successo – arrivano quando lo rileva l’ex pilota della RAF – ed erede del ricchissimo proprietario di miniere sir Abe Bailey – Jim Bailey.
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Ribattezzato solo Drum, nuova sede a Johannesburg, il magazine inizia a raccontare la popolazione nera urbana in molto assolutamente inedito, esaltandone la cultura vivace e imponendosi anche come megafono dei movimenti nazionalisti africani. Un comitato editoriale composto da alcune delle principali figure politiche e culturali dell’epoca faceva da garanti per i contenuti. Che non erano solo storie scritte, ma anche e soprattutto immagini, che ebbero fin da subito un ruolo fondamentale. Merito del fotografo e direttore artistico Jürgen Schadeberg, arrivato in Sudafrica nel 1950 dopo aver lasciato una Berlino devastata dalla guerra, e che fu uno dei rari europei a fotografare la vita quotidiana dei neri. La fotografia era un linguaggio particolarmente accessibile e immediato per arrivare a un pubblico in gran parte analfabeta e comunque non abituato a consumi culturali di questo tipo. I servizi fotografici di Drum – musicisti jazz, ragazze, gangster, proteste sociali, la vita nelle township sotto l’apartheid – hanno attirato sempre più lettori e la tiratura della rivista è schizzata.
Arrivando addirittura a diffondersi in quasi tutta l’Africa – come documentato sempre da Time che nel 1959 al fenomeno dedicò un lungo reportage -, fino a toccare le 240mila copie, distribuite anche in Kenya, Uganda, Ghana, Nigeria e Sierra Leone. Anthony Sampson, un amico di Bailey di Oxford, fu nominato editore e oltre a lui e al direttore artistico la redazione era inizialmente composta da un segretario e dal redattore sportivo Henry Nxumalo, soprannominato “Mr Drum”. Schadeberg ebbe il merito di formare tutte una nuova generazione di fotografi neri, tra cui Ernest Cole, Bob Gosani, Peter Magubane. Tra le firme di punta ci furono Peter Abrahams, Alex la Guma, Es’kia Mphahlele e Richard Rive che, spesso usando satira e ironia, hanno raccontato in un modo totalmente nuovo la vita dei neri in Sudafrica, ottenendo poi anche importanti riconoscimenti internazionali. “A Drum non esisteva l’apartheid”, raccontava Magubane. “Non c’era discriminazione negli uffici della rivista. Solo quando uscivi da Drum e andavi nel mondo fuori dalla porta principale, capivi di essere nella terra dell’apartheid. Ma mentre eri lì, tutti erano una famiglia”. La storia di questo primissimo lifestyle magazine africano è diventata, nel 2004, pure un film hollywoodiano con lo stesso titolo, interpretato da Taye Diggs nei panni del giornalista Henry Nxumalo. La trama segue la storia di Nxumalo e documenta l’ascesa di Drum e la vita a Sophiatown durante l’istituzionalizzazione dell’apartheid negli anni Cinquanta. Non più voce della resistenza, Drum oggi continua a essere pubblicato – fa parte del gruppo Media24 – e con un certo successo, ma è diventato un giornale solo online e di taglio popolare, con più attenzione a notizie di mercati e intrattenimento piuttosto che alla questioni politiche.
Fonte: news.google.com